Il calcio fiorentino a Livorno
Oggi non si ha memoria del calcio fiorentino che si è giocato a Livorno nei tempi antichi. Esistono tuttavia molteplici documenti che attestano la pratica del calcio in città e l’affezione che il popolo aveva rispetto al gioco, fin dal primo Seicento. Al 1603 risalgono le prime testimonianze relative al calcio giocato nei pressi del porto, ma sono numerosi anche i riferimenti a partite disputate nell'odierna Piazza Grande lungo il XVII e XVIII secolo. Sicuramente le partite di cui abbiamo più notizie sono quelle disputate per il Carnevale del 1726 e quelle realizzate nel maggio 1764 per l’Incoronazione a Re di Germania di Giuseppe II d’Arsburgo-Lorena, e nel 1766 per la visita del Granduca Leopoldo II.
La partita del 1726 - Il racconto di Georg Christopher Martini
Per rendere il Carnevale di quest’anno 1726 ancor più solenne, in onore della nuova sposa e nuora del Governatore Barone Von Nero, venne organizzato da cavalieri e negozianti un gioco pubblico che chiamano il Calcio. Vi partecipano due squadre, ognuna di 40 uomini, vestiti tutti alla stessa foggia, ma con abiti di colore diverso. Chi aveva la divisa color rosa e bianco, chi bianco e blue-mourant. Il costume è piuttosto teatrale: portano beretti e penne bianche, hanno intorno ai fianchi una maglia ornata con falpalà, cordoni e sciarpe alla spalla, nonché calze di seta e sciarpe bianche. I due Alfieri, che sono i capitani delle squadre, vestono i colori della loro parte, ma con guarnizioni molto più ricche. Il berretto come il vestito è di velluto riccamente ornato a punto di Spagna e rifinito con una lunga penna bianca. Durante la parata sono seguiti da 2 paggi, vestiti allo stesso modo che reggono le punte delle grandi bandiere. Il gioco è quello del pallone, un gioco vecchio e comune in Toscana, sul quale è stato scritto un trattato che ho visto incluso nel lessico della Crusca.
Voce narrante di Lorenzo Lombardi
La partita del 1726 - Il racconto di Georg Christopher Martini
I toscani lo inventarono soprattutto perché i loro uomini si rafforzassero nel corpo, si abituassero a superare l’avversario ed allo spirito di conquista. A tal fine sottoposero il gioco a ben determinate regole. Le staccionate che delimitano uno spazio rettangolare, sono lunghe 150 passi, larghe 100 e comprendono una gradinata a otto file. Sui banchi trovano posto circa 160 spettatori: quelli più vicini pagano un fiorino, quelli più lontani 4 kreutzer. Il denaro va a beneficio di coloro che a proprie spese, hanno erette le gradinate. Il palco centrale, davanti al Palazzo del Governatore, è occupato dagli organizzatori del gioco che fanno parte della nobiltà. La prima fila, sollevata tre passi da terra, ha davanti un tappeto che corre lungo tutto l’anfiteatro. Alle due estremità del campo di gioco ogni Alfiere fa innalzare un padiglione alto 40 piedi, ricoperto di damaschi. Sulla cima di ogni tenda c’è una sfera sulla quale spicca una fama alata a significare che l’onore della vittoria è nelle mani della fortuna. La sfilata dei giocatori ha inizio due ore avanti notte. Sul campo si presentano dapprima le trombe e i corni da caccia, seguono i Patrigni, scelti in genere tra i più nobili cavalieri, il cui compito è quello di separare i contendenti che durante il gioco si comportano con troppa violenza
Voce narrante di Lorenzo Lombardi
La partita del 1726 - Il racconto di Georg Martini
Vengono quindi i giocatori di ciascuna squadra, a coppie tenendosi ognuno ad un nastro che li unisce. Nel mezzo avanzano gli Alfieri preceduti dai tamburi, chiudono il corteo altri giocatori. Ciascun Alfiere pianta la bandiera di fronte alla propria tenda mentre la sua squadra va ad occupare la metà del campo. Davanti, in una unica fila e su tutta la larghezza di questo, prendono posizione gli sfondatori; i colpitori di palla, o datori, si sistemano dietro su tre file. La squadra che in tre quarti d’ora, tanto dura il gioco, manda per più volte la palla oltre lo steccato posteriore della parte avversa (il che si chiama fare una caccia) si aggiudica la vittoria che è salutata con grida di giubilo, come se fosse stata vinta una battaglia capitale contro i Turchi. La bandiera dei vinti viene strappata e portata in trionfo a suon di musica, mente la parte perdente si ritira in silenzio dalla piazza come disonorata, abbandonando la bandiera alla sua sorte. Il giorno successivo la bandiera vinta e quella vittoriosa, sempre accompagnate dalla musica e dalle grida di giubilo dei vincitori, vengono portate in trionfo per la città e fatte sventolare davanti alle case delle famiglie più rappresentative, specialmente dove ci sono delle donne (…) Questo semplice gioco è praticato con tale ardore e accanimento che quando i contendenti inseguono la palla nel campo, finiscono col venire alle mani e volano dei pugni tali che molti ne escono con certe facce da rendere inutile, per il resto del Carnevale, una maschera sul volto. Negli scontri si è finito con l’ammettere lo scambio di pugni di ogni genere, a patto che questi siano scoperti, mentre è proibito l’uso di qualsiasi arma come pistole, daghe, coltelli e bastoni.

Voce narrante di Lorenzo Lombardi
La fine del calcio a Livorno
Nello stesso giro d'anni in cui vennero organizzate le partite in onore degli Asburgo-Lorena, il calcio a Livorno cominciò ufficialmente ad essere abbandonato.
Le partite organizzate per le occasioni speciali dal 1767 non furono più ritenute opportune, anche a causa della reazione della Granduchessa.
Lo stesso anno fu rinnovato il bando dei giochi di palla sulle pubbliche vie e piazze, proibiti già nel 1749 e 1757: "resta proibito a qualunque persona il giocare alle Pallottole, e alla Palla, sì a mano, che con la mestola alla pena della cattura, e di lire sette per ciascheduno contravventore, e per ciascheduna contravvenzione, ed il Padre sarà tenuto irressimibilmente per il figliuolo".
Altri giochi con la palla
Il bando del 1767 trattava in realtà di altri giochi con la palla, oltre al calcio 'livornese'. In città durante l'età moderna erano in effetti praticati anche il gioco della palla a maglio, il gioco della palla a corda, e il gioco della pillotta (o del pallone col bracciale).
Il gioco della palla a maglio vedeva fronteggiarsi due squadre composte da un numero limitato di giocatori che impugnavano un maglio di legno (stecca di legno con testa a forma di martello) con il quale battevano una palla di cuoio formata a quarti. La prima menzione per la città di Livorno risale agli inizi del 1600, epoca in cui veniva giocato sulle proprietà di un fiammingo.
Il gioco della palla a corda, molto popolare, consisteva essenzialmente nel mandare la palla, per mezzo di una paletta, al di sopra di una corda tesa da un lato all'altro di un campo ben delimitato. Nel 1606, per volere di Cosimo II, il quale era intenzionato ad offrire un passatempo ai mercanti residenti a Livorno, fu realizzata la costruzione di uno stabilimento del gioco della prima Palla a corda cittadina, posto sul retro della via del Giardino (attuale via Fiume a Livorno).
Infine, la Pillotta era un gioco che prevedeva una piccola palla da colpire con una mestola di legno. Praticato sin dal XV secolo dalle aristocrazie italiane, si trattava di uno 'sport' di squadre e si svolgeva usando una sfera di cuoio piccola ma pesante lanciata con gran forza per mezzo di un bracciale di bosso o di sorbo, in modo da farla passare sopra una corda delimitante la metà campo. Alla popolarità di questo gioco contribuirono certamente i suoi giocatori, che finivano per diventare vere e proprie leggende. A Livorno, inizialmente veniva praticato liberamente nelle strade e piazze della città. Soltanto nel 1689 il Governatore di Livorno Marco Alessandro Dal Borro emanò un avviso per disciplinare tale gioco, permettendolo unicamente nella strada ove esisteva l’osteria del Re, nella vecchia via dei Magnani (oggi scomparsa), all’epoca abitata dalle “meretrici”, e pertanto luogo appartato.